9 aprile 2025 – Alessandro Piperno racconta Philip Roth

Philip Roth, ma non solo, al centro della splendida lectio magistralis di Alessandro Piperno: Fuorigioco 2025 infatti è segnato dalla presenza importante, costante di Proust. E come il finale della recherche si sovrappone perfettamente all’inizio della trilogia americana così la rassegna trova nello straordinario autore francese il proprio inizio ed il proprio epilogo.

Introdotto da Luigi Mascheroni, Piperno ha trattato magistralmente la carriera discontinua di Philip Roth, forte anche della sua stessa esperienza di scrittore di successo.

Piperno ha iniziato analizzando l’annuncio del ritiro dalla scrittura di Roth nel 2012, fatto con “assoluto understatement” e notevole eleganza. La frase chiave fu “Non credo che un altro libro cambierebbe quello che ho fatto”, rivelando che Roth concepiva i suoi libri come un “organismo unico” e la sua opera come “compiuta”. Questo gesto conferisce alla sua carriera una “straordinaria esemplarità”, vista non come perfezione, ma come un itinerario disseminato di grandi trionfi, cadute e improvvise resurrezioni, percorso con dolente umanità.

Secondo Piperno, “non sei un grande scrittore, se non sbagli”. Il dubbio è “metà della vita di uno scrittore”, e vivere significa “capirla male… sbagliando”. Roth, pur avendo ottenuto molti successi, negli anni ’90 era considerato sottovalutato da critici come Harold Bloom, che solo allora ne riconobbe la “Vette Shakespeariane”.

Il successo iniziale di Portnoy (Portnoy’s Complaint) fu per Roth un’esperienza di “emancipazione letteraria”, un modo per chiudere i conti con i maestri Flaubert e James. Per Piperno, leggerlo a 15 anni fu un’emancipazione di lettore, colpito dalla voce spregiudicata e soprattutto dalla nuova sintassi: ricca di aggettivi, con verbi spesso alla fine che creano un “ardore galoppante”, e cesure quasi cinematografiche.

Per superare la crisi del successo precoce, Roth creò l’alter ego Nathan Zuckerman, uno scrittore che affronta la perdita dei suoi “argomenti”. La trilogia di Zuckerman è una grande seduta di autocoscienza. La fonte primaria dell’ispirazione rimane “il tavolo della nostra cucina di Newark”, il “luogo elettivo” dei ricordi, paragonabile alla madeleine proustiana. Il vero tema di Roth, come nei grandi romanzieri, è il tempo che passa, gli amori perduti, i nostri genitori che se ne vanno.

Negli anni ’90, Roth cerca un “respiro più ampio, un respiro epico”. La trilogia americana (Pastorale americana, Ho sposato un comunista, La macchia umana) vede Zuckerman invecchiato e strutturalmente “impotente”, trasformato in un testimone. Pastorale americana inizia con una deliberata parodia proustiana. Nonostante le differenze, Roth e Proust condividono in realtà l’idea che i veri libri nascano dall’oscurità e del silenzio, e che la scrittura sia un atto solitario.

Il parallelo con Proust è evidente nel ritorno di Zuckerman a un evento sociale, dove l’esperienza di vedere vecchi compagni è vertiginosa, un “trionfo di morte” che rivela il proprio invecchiamento. Mangiare un rugelach non abolisce la paura della morte, a differenza del presunto effetto della madeleine (un’interpretazione della memoria involontaria che Piperno corregge: le epifanie proustiane sono in realtà esperienze di morte perché attestano la perdita del passato).

La trilogia americana veicola un forte senso della fine. Le conclusioni offrono immagini potenti: le stelle in Ho sposato un comunista e l’uomo solitario che pesca nel ghiaccio in La macchia umana, un’immagine di purezza e pace alla fine del secolo.

Piperno descrive Roth come uno scrittore la cui grandezza risiede anche nei suoi difetti, che si evolve da protagonista a testimone, esplorando i temi universali del tempo e della perdita attraverso un’opera che, pur nascendo nella solitudine, merita di essere discussa e apprezzata.

Una carriera complessa, quella del grande autore americano, fatta di alti e bassi: con lo straordinario successo di “Il lamento di Portnoy”, libro “proibito” che entusiasma il giovane Alessandro Piperno, ottiene un successo straordinario ma anche le critiche feroci della comunità ebraica e non solo. Come per molti scrittori il successo è foriero di difficoltà: nel primo grande romanzo ogni scrittore “uccide” la propria storia familiare. Da qui comincia la complessa ed estenuante ricerca del capolavoro, che arriverà proprio con la trilogia, ricerca che vede protagonista dei romanzi il suo alter ego letterario Nathan Zuckerman. E all’apice di questa ricerca si crea quel parallelismo perfetto, quel cerchio che si chiude tra Roth e Proust. E solo ad una lettura superficiale la madeleine proustiana si discosta da quel confronto tragico col passato che caratterizza l’opera di Roth, perché anche in Proust l’effimera gioia presto svanisce lasciando il posto al rimpianto per momenti che mai più torneranno e alla constatazione di una realtà fatta di decadenza.